mercoledì 19 ottobre 2011

E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,
spirandole contro gonfiava intorno la sua veste
e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli
rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino
non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore
lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo.
Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi;
questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto
d’averla presa, che la stringe col muso proteso,
quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi
evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.
Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto,
corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle
della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.
Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa
allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:
«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,
dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».
Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
il petto morbido si fascia di fibre sottili,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici,
il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia
e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,
spirandole contro gonfiava intorno la sua veste
e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli
rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino
non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore
lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo.
Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi;
questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto
d’averla presa, che la stringe col muso proteso,
quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi
evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.
Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto,
corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle
della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.
Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa
allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:
«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,
dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».
Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
il petto morbido si fascia di fibre sottili,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici,
il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia
e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.


(Le Metamorfosi, Ovidio) -Apollo e Dafne-

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