giovedì 5 settembre 2013

Pensiero per la Sagra

Io lo so che non si abbattono le emozioni, non si demoliscono i ricordi, non si smontano le speranze.
Ci sono almeno due ragioni per cui io credo fermamente in tutto questo. La prima è molto banale: non riesco ad accettare il contrario. Non riesco a pensare che tutte le esperienze e i momenti vissuti insieme in questi venticinque anni possano essere spazzati via, o anche solo impolverati, da qualche braccio meccanico. La seconda motivazione invece mi viene (in modo del tutto inaspettato) dal mondo della matematica: è la vecchia questione della differenza tra “sufficiente” e “necessario”. Siamo tanti qui questa sera, e molto diversi, ma qualcosa che ci unisce: se ognuno di noi guarda attorno a sé sentirà riemergere uno, due, tre, mille aneddoti legati a questi pochi metri. Vedete però, la matematica mi ha insegnato che ognuno di questi luoghi: il bar, il bancone di Giancarlo, i tavoli “esterni” che non si trovano mai, la vasca delle panzanelle, sono tutti elementi “necessari” ma non “sufficienti”. Sono assolutamente “necessari” perché senza di essi non avremmo potuto vivere tutto quello che abbiamo provato, ma non sono affatto “sufficienti” perché siamo stati noi a dargli un nuovo significato. In fondo tutti noi siamo un po’ come questa sagra: pezzi unici, presi da chissà dove, magari anche un po’ strani e che si sentivano senza scopo, ma che assemblati insieme hanno trovato una nuova funzione, hanno vissuto una seconda vita. Noi però non siamo affatto rimasti gli stessi che sono partiti venticinque anni fa, ma anzi ci siamo allargati, aperti, arricchiti, e ogni pezzo che si è aggiunto dopo un breve rodaggio è andato velocemente a diventare parte del tutto. Segno quindi che forse c’è qualcosa più di una maglietta a renderci tutti uguali. “Qualcosa”, che certamente non viene giù insieme alle lamiere.
Il rischio però è che sotto le macerie del vecchio resti impigliata anche la speranza, imbrigliata dalla tristezza e appannata dalla stanchezza. Come possiamo evitarlo? Dobbiamo pensare l’abbattimento come un’occasione per poter mettere a nudo la struttura, quella che ha tenuto in piedi questi pezzi così diversi e li ha resi qualcosa di nuovo e vitale. Prendere questa armatura e costruirci sopra una nuova storia. Solo allora l’amarezza per una stagione che finisce diventerà la rincorsa da cui riprendere la strada, solo così l’arrabbiatura per una decisione che appare a metà tra la giustizia e l’accanimento potrà trasformarsi in una prova che non demolisce ma fortifica.
Resta un senso di incompiutezza, soprattutto per l’aver vissuto le ultime sere di sagra lontani dal pensiero che questa realtà sarebbe potuta terminare da lì a poco. Troppo entusiasmo ancora nell’aria, troppa contentezza negli occhi di tutti, soprattutto dei più piccoli che vedevamo sperimentare, ogni sera di più, le stesse emozioni che hanno accompagnato le estati dei tanti giovani transitati nella nostra parrocchia.
Lasciatemi aggiungere che il groppo alla gola ce l’abbiamo forse un po’ più di tutti noi “ragazzi grandi”, che qui c’abbiamo passato un’infanzia e che tra queste tavoli siamo diventati amici veri. I nostri vent’anni non ci permettono di piegarci facilmente all’idea che un luogo dove abbiamo passato gran parte della nostra adolescenza da qui a qualche settimana non esisterà più.
Io lo so che non si abbattono le emozioni, non si demoliscono i ricordi, non si smontano le speranze. In fondo, le “Luci” a San Pio X, non siamo noi?. 

Disegno di Liliana Ceragioli

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