lunedì 20 maggio 2013

"...Sopra una carrozza che ti porta via"


Alice era lì. Le gambe rigide piantate a terra, lo sguardo basso, la mano in tensione stringeva con forza eccessiva la sbarra di ferro. Il treno stava frenando. Una decelerazione lenta, prolungata, per cui già da qualche istante quel suono acutissimo aveva cominciato a lacerare il sempre uguale rumore di marcia. Il fischio stonato, tremulo, assordante che tante volte aveva sentito, le aveva sempre suggerito l'idea di un' imprecazione triviale e un po' goffa, come un'esclamazione spontanea suscitata da uno sforzo prolungato fatto controvoglia . In quel freddo pomeriggio primaverile invece, esso non le parve nient'altro che un rantolo straziante: se lo sentì palpitare alla bocca dello stomaco. Alice in quel momento non pensava. Nella sua testa rimbombava uno stato di cose confuse: parole, gesti, sguardi non delineabili precisamente, ma dalle quali sgorgava un silenzio che risultava del tutto impenetrabile, perché addensatosi nel vuoto lasciato dalla ragione.
L'unica cosa che seppe fare in questo stato fu voltarsi una, due, tre volte verso il vagone alla sua destra, poteva ancora vedere la sua testa appoggiata sullo schienale. Il vetro scuro della porta d'ingresso nella carrozza si frapponeva all'immagine, velandola di un alone grigiastro: pareva che tra lei e la persona di là dal vetro, che ora le dava le spalle in quanto proiettata verso la continuazione del suo viaggio, ci fosse già una vita di distanza. Pareva che in quei pochi metri non si fosse consumato soltanto il saluto imbranato di due anime che finalmente si erano trovate, ma che in quel banale pezzo di corridoio si fosse materializzata una barriera: la difficoltà che sorge dal rapportarsi con la persona a cui si sa di aver rivelato la propria verità più profonda.
Se avesse avuto un po' più di voce nel cuore, la voce necessaria per superare la “se stessa” di sempre, Alice avrebbe potuto fare tante domande ma questo non le era concesso. In fondo l’assenza di parole era stata la sconcertante reazione che l’aveva immobilizzata fin dal loro primo incontro. Una tensione irrazionale e quasi violenta al suo pensiero, un tremore profondo anche solo a sentire il suo nome, una perenne sensazione di insicurezza ogni volta che aveva la possibilità di prendere un’iniziativa: questo era come Alice viveva la sua presenza. Come poteva anche solo fissare i suoi occhi?.
E pensare che aveva atteso quel momento da un tempo inquantificabile, o meglio Alice avrebbe saputo dire con certezza quanti fossero i giorni trascorsi dall'ultima volta in cui avevano avuto la possibilità di vedersi, ma in questo caso “l’attesa” era qualcosa che andava oltre passare degli anni: si potrebbe dire che Alice attendesse quell’incontro da sempre, perché in fondo quello fu prima di tutto un incontro con se stessa.
Non voglio scendere” erano state le sue ultime parole pronunciate prima dell’abbraccio, parole generiche e impotenti, articolate a tono di voce sommesso mentre sul suo volto le compariva un sorriso scomposto e nervoso, che tentava di coprire malamente la sua tristezza. Non aveva saputo fare ciò che avrebbe voluto, ciò che infondo non era possibile compiere: condensare in qualche sillaba tutto ciò che aveva dentro. 
Quando i suoi piedi toccarono il marciapiede del binario le parve di essere scesa da un’altra dimensione, cominciò a camminare, lentamente, come se non sapesse dove dirigersi. Ed era così, sapeva solo vagare...con la netta sensazione che tutto quello per cui sarebbe dovuta restare se ne fosse appena andato.


Foto di Carmen Prisco

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